Come potete notare dal titolo del seminario di quest’anno, il tema è diverso dall’ambito clinico che solitamente vi proponiamo.
Ho pensato di proporvi questo tema, in quanto fa parte di una mia sfera d’interesse, iniziata ancor prima della mia professione di psicologo psicoterapeuta. Infatti, del mio iter formativo, fa parte il conseguimento del diploma di maturità artistica all’epoca delle scuole superiori. In quel periodo svolgevo anche l’attività artistica nel campo della pittura.
Negli incontri che avevo con i visitatori alle mie esposizioni, mi venivano rivolte continuamente domande sull’arte e gli artisti, alle quali non sapevo come rispondere.
A conseguenza di ciò, durante il corso di laurea in psicologia, mi è sorta la spinta a voler dare risposta ai quesiti che ricorrevano e che erano: “quali sono le motivazioni dell’artista?”, “qual è la funzione dell’arte?”, “perché interpretare l’opera d’arte?”, “qual è il rapporto tra creatività e follia?”.
Naturalmente in questa relazione riporterò, prevalentemente, il punto di vista di alcuni autori che si sono occupati ed hanno approfondito i quesiti a cui ero interessato. Questo perché, all’epoca, non potevo avere ancora un mio punto di vista. Infatti la mia formazione, sulla psicoanalisi, era principalmente teorica e non ancora pratica.
Mi riservo, in un prossimo seminario, di rivisitare questi temi per esporvi anche la mia personale visione, che sto maturando attraverso l’esperienza di ormai ventotto anni di attività come psicoterapeuta e come artista.
Prima di entrare nel merito dei quesiti, ho ritenuto di presentarvi la visione di Freud, di Jung e di Neuman circa l’interpretazione della creazione artistica.
L’interpretazione della creazione artistica nel pensiero di Freud
Freud ha trattato il fenomeno della creazione artistica in un saggio del 1907 dal titolo “Il poeta e la fantasia”, nel quale ci offre una ipotesi interpretativa sulla genesi della creazione artistica.
Usando le parole dello stesso Freud “…una forte impressione attuale, risveglia nel poeta il ricordo di un episodio anteriore perlopiù risalente all’infanzia, e da questo deriva ora il desiderio, che si crea il proprio appagamento nella produzione poetica…”
Cosa significa e come Freud è arrivato ad enunciare questa interpretazione?
Per arrivare a questa interpretazione, Freud ha istituito un connubio fra tre attività dell’uomo: il gioco infantile, le fantasie, la creazione artistica. E da dove deriva questo connubio?
Secondo Freud, ciò da cui nasce il gioco infantile è un intenso desiderio del bambino di essere grande, adulto, desiderio che egli soddisfa, appunto, imitando nel gioco quelle attività che riesce a conoscere della vita degli adulti. Nel fare ciò: “Il bambino distingue bene il mondo dei suoi giochi, nonostante i suoi investimenti affettivi, dalla realtà e appoggia volentieri gli oggetti e le situazioni da lui immaginate alle cose visibili e tangibili del mondo reale.”
Anche l’adulto ha dei desideri, ma non potrebbe appagarli nel gioco, perché da lui ci si attende che agisca nel mondo reale. L’adulto sarebbe, dunque, condannato a rinunciare al piacere che gli procurava l’attività ludica, ma non vi è cosa più difficile della rinuncia a un piacere già una volta sperimentato: “Effettivamente noi non possiamo rinunciare a nulla e solo barattiamo l’una cosa con l’altra, così che ciò che sembra una rinuncia altro non è in realtà che la formazione di un surrogato o di un elemento sostitutivo.” Perciò l’adulto, secondo Freud, non potendo
rinunciare al piacere lo trasforma, lo sostituisce con qualcos’altro, invece di giocare, fantastica.
La differenza tra il giocare e il fantasticare sta nel fatto che, mentre nel gioco ciò che è immaginato viene espresso in attività ludica, cioè manipolando oggetti e situazioni concrete nella realtà, nelle fantasie questo non avviene, perché l’attività fantastica rimane confinata a livello puramente psichico.
Nella concezione freudiana, dunque, le fantasie sarebbero un sostituto del primitivo gioco infantile. Vediamone ora le caratteristiche.
Le fantasie sono una prerogativa della persona insoddisfatta; la persona felice, infatti, non avrebbe bisogno di fantasticare perché sarebbe appagata dalla realtà, ma, poiché nella vita tutti attraversano periodi d’insoddisfazione, tutti avranno occasione di fantasticare. Le fantasie sono, per Freud, degli appagamenti di desideri insoddisfatti. Dopo aver premesso le caratteristiche delle fantasie, proviamo ora a formulare un’interpretazione dinamica della loro progressiva formazione, avvalendoci di quanto dice a questo proposito Freud stesso: “Il lavoro mentale prende le mosse da un’impressione attuale, un’occasione offerta dal presente e suscettibile di risvegliare uno dei grandi desideri del soggetto. Di là si collega al ricordo di un’esperienza anteriore, risalente in genere all’infanzia, in cui quel desiderio veniva esaudito; e crea quindi una situazione relativa al futuro che egli si raffigura quale appagamento del desiderio: questo è appunto il sogno a occhi aperti o fantasia, recante in sé le tracce della sua provenienza dall’occasione attuale e dal ricordo passato.”
Eccoci arrivati alla spiegazione dell’ipotesi dalla quale siamo partiti. In sintesi, il meccanismo della creazione artistica è identico a quello delle fantasie, salvo per il fatto che, nella creazione artistica, l’appagamento del desiderio si realizza concretamente nella produzione di un quadro, di un romanzo, di una poesia, di una scultura, in breve dell’opera d’arte. Quindi, la creazione
artistica è più vicina al gioco che alla fantasia, poiché è una fantasia che prende forma si realizza nella realtà!
Nell’interpretazione freudiana dell’opera d’arte, quindi, vengono ad assumere un’accentuazione notevole i ricordi infantili dell’artista. Ciò è inevitabile, dato che, sia le fantasie, sia la creazione artistica, sono una continuazione e un sostituto del primitivo gioco infantile.
Scrive Musatti che questa ipotesi interpretativa, “enunciata da Freud in ‘Il poeta e la fantasia’ in forma del tutto generale, fu certamente da lui formulata con particolare riguardo alla ‘Gradiva’ di Jensen, come risulta dalle lettere che l’anno prima egli si era scambiato con Jensen, da quanto allora scrisse a Jung,…”.
Il notevole risalto che Freud dà alla fantasia, nella sua ipotesi interpretativa, ci spinge ad approfondirla ulteriormente. Freud, a proposito della formazione dei sintomi nevrotici, afferma che (essi) “sono il risultato di un conflitto (tra una parte della personalità che sostiene certi desideri, e un’altra che vi si oppone e li respinge) che si solleva intorno a un nuovo modo di soddisfacimento della libido.” Il conflitto viene provocato dal fatto che la libido viene frustrata, per l’opposizione di una parte della personalità contraria a un determinato appagamento, ciò fa sì che essa, privata del suo soddisfacimento, sia costretta a cercarsi altri oggetti e altre vie che non suscitino l’opposizione di una parte della personalità. Se anche, quando la libido è disposta ad accettare un altro oggetto al posto di quello negato è frustrata, essa scrive Freud “sarà costretta a imboccare la via della regressione e a perseguire il soddisfacimento in una delle organizzazioni già superate o mediante uno degli oggetti precedentemente abbandonati”. A questo punto, Freud si pone il problema di come la libido trova la strada verso questi punti di fissazione a epoche e oggetti precedenti. Freud sostiene che “tutti gli oggetti e le direzioni abbandonati dalla libido non sono stati definitivamente abbandonati in ogni senso. Essi o i loro derivati vengono ancora
trattenuti con una certa intensità nelle rappresentazioni della fantasia. Basta quindi che la libido si ritiri nelle fantasie, perché a partire da esse trovi via libera a tutte le fissazioni rimosse”. Questa regressione della libido alla fantasia è, per Freud, una tappa intermedia nella via verso la formazione dei sintomi. Freud afferma che Jung “ha coniato per questa tappa il termine molto adatto di introversione”. Questa condizione di introversione designa, per Freud, sia il distacco della libido dalle possibilità di soddisfacimento reale, sia la sovraccarica di fantasie, per cui in questa condizione si determina un allontanamento dalla realtà attraverso le fantasie però, scrive Freud “Vi è una via di ritorno dalla fantasia alla realtà e cioè l’arte.”
Vediamo ora come ciò sia possibile.
Anche l’artista è in germe un introverso non molto distante dalla nevrosi. “Egli – scrive Freud - è incalzato da fortissimi bisogni pulsionali, vorrebbe conquistare onore, potenza, ricchezza, gloria e l’amore delle donne; gli mancano però i mezzi per raggiungere queste soddisfazioni. Perciò, come un qualsiasi altro insoddisfatto, egli si distacca dalla realtà e trasferisce tutto il suo interesse; e anche la sua libido, sulle formazioni di desiderio della vita fantastica, dalle quali il cammino potrebbe condurre alla nevrosi.”
L’artista però non diviene nevrotico perché, per prima cosa, egli sa elaborare i suoi sogni ad occhi aperti, in modo che essi perdano ciò che vi è di troppo personale che urterebbe gli estranei, facendoli divenire, in questo modo, godibili anche per gli altri; egli è capace di mitigarli, al punto che essi non tradiscono facilmente la loro origine dalle fonti proibite. L’artista possiede il misterioso potere di modellare un certo materiale fino a renderlo immagine fedele della sua rappresentazione fantastica. Inoltre, la costituzione psicologica dell’artista “possiede una forte capacità di sublimazione e una certa lassezza per quanto riguarda le rimozioni determinanti il conflitto”.
Il concetto di sublimazione è un altro concetto fondamentale nella teoria freudiana dell’interpretazione dell’opera d’arte; nel saggio “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci” del 1910 Freud afferma “…il talento e la capacità artistica sono intimamente connesse con la sublimazione…”. Si parla di sublimazione quando forze pulsionali, di natura sessuale, vengono deviate dal loro scopo immediato e vengono sostituite da altre, di ordine considerato più elevato e di natura non sessuale, infatti come afferma Freud “La pulsione sessuale è particolarmente idonea a concedere questi contributi, perché è dotata della capacità di sublimazione, vale a dire è in grado di scambiare il suo obbiettivo immediato con altri, eventualmente di un ordine considerato più elevato e non sessuale”.
L’interpretazione della creazione artistica nel pensiero di Jung.
Secondo Jung l’impulso creativo proviene dall’inconscio dell’artista. Questo impulso è irregolare e dispotico e si realizza, o con potenza tirannica, o con sottile scaltrezza, infischiandosene del benessere della persona che lo porta dentro di sé: “La psicologia analitica lo definisce complesso autonomo, il quale, come anima parziale dissociata, ha una vita psichica indipendente al di fuori della gerarchia della coscienza e appare, secondo il suo valore energetico e la sua forza, o come turbamento del processo cosciente guidato dalla volontà, o come un’istanza di carattere superiore, che può sottoporre l’Io al suo servizio.”
Quindi, “Per una ragione qualsiasi, entra in attività una regione della psiche fino allora inconscia; una volta animata, essa si sviluppa e cresce attirando verso di sé le associazioni con essa affini. L’energia che a ciò occorre viene naturalmente sottratta alla coscienza, a meno che la coscienza stessa non preferisca identificarsi col complesso. In caso diverso, vediamo che l’intensità degli interessi e delle attività coscienti svanisce a
poco a poco, producendo o un’attività apatica, stato frequente negli artisti, oppure un’evoluzione regressiva delle funzioni coscienti, cioè un abbassarsi di queste funzioni verso i loro stadi infantili e arcaici, una specie di degenerazione. E’ da questa energia sottratta alla guida della personalità cosciente che sorge il complesso autonomo.”
Dal differenziarsi o dalla identificazione della coscienza dell’artista col complesso autonomo creatore, quindi, derivano due tipi di produzione artistica. Nel primo caso avremo produzioni artistiche intenzionali, dirette dalla coscienza, che attraverso la riflessione avranno la forma e l’effetto voluti dall’artista. Queste comunicheranno significati accessibili alla coscienza. Nel secondo caso, avremo produzioni artistiche con immagini e forme strane, le cui espressioni avranno valore di veri simboli, poiché esprimono significati ancora sconosciuti dato che non sono stati rielaborati dalla coscienza.
Jung afferma, inoltre, che non è possibile sapere quali sono le componenti del complesso autonomo finché l’opera, portata a termine, non ci mostra le sue fondamenta e le vie che ci conducono ad esse. L’opera d’arte ci offre una perfetta immagine, è questa immagine che noi sottoponiamo all’analisi per trovarvi il simbolo. Se non vi troviamo alcun valore simbolico, l’opera non ha altro significato se non quello che manifesta, almeno per noi: Jung precisa “almeno per noi”, perché vi è la possibilità che vi siano in noi delle prevenzioni che c’impediscano di intuire il valore simbolico di alcune opere d’arte. Questo spiegherebbe il fatto che ogni tanto viene riscoperto qualche artista: “Ciò avviene quando la nostra coscienza ha raggiunto un grado più alto, da cui ci pare di sentire che l’antico poeta dica qualcosa di nuovo. Questo qualcosa di nuovo era già nella sua opera, ma sotto forma di simbolo nascosto, che ci è permesso comprendere grazie a un rinnovamento dello spirito dell’epoca.”
Le immagini, attraverso le quali si esprime un’artista, possono essere fatte risalire a immagini primordiali della mitologia
inconscia, comuni a tutta l’umanità. A questa sfera Jung dà il nome di inconscio collettivo. L’inconscio collettivo non può divenire cosciente, non vi è nessuna tecnica analitica capace di farlo ricordare, a differenza dell’inconscio personale che può essere reso cosciente. Tuttavia, le immagini primordiali possono essere proprio un elemento di congiunzione, di mediazione fra l’inconscio collettivo e la coscienza del singolo individuo: “L’archetipo (o immagine primordiale) è la tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo che, pur nelle loro variazioni individuali anche sensibili, continuano a derivare dal medesimo modello fondamentale”, e ancora “L’immagine primordiale o archetipo è una figura, demone, uomo, o processo che si ripete nel corso della storia, ogni qualvolta la fantasia creatrice si esercita liberamente. Essa è in primo luogo una figura mitologica.”
Se andiamo, dunque, ad esaminare queste immagini, vediamo che esse sono il risultato di molte esperienze tipiche dell’umanità. “In ciascuna di queste immagini è racchiuso un frammento di psicologia e di destino umano, un frammento dei dolori e delle gioie che si sono succedute infinite volte, secondo un ritmo su per giù sempre uguale, nelle schiere dei nostri antenati.”
Ciò fa sì che, nel momento in cui appare una situazione mitologica, si è sempre contrassegnati da una particolare intensità emotiva, come se in noi fossero toccate corde che ordinariamente non risuonano mai, o come se si scatenassero potenze di cui non supponevamo l’esistenza.
Dato che la lotta per l’adattamento è assai penosa, poiché abbiamo sempre a che fare con condizioni individuali, cioè con condizioni atipiche, scrive Jung “…non deve stupirci il fatto che, nel momento preciso in cui giungiamo a una situazione tipica, proviamo un improvviso sentimento di liberazione, sentimento del tutto speciale; né deve stupirci di sentirci come trasportati o afferrati da una specie di potenza sovrumana. In tali momenti non siamo più degli esseri particolari, noi siamo la specie, ed è la
voce dell’umanità che risuona in noi.” Perciò ogni relazione con l’archetipo, vissuta o semplicemente espressa, è “commovente”, cioè essa agisce poiché sprigiona in noi una voce più potente della nostra. Quindi, scrive Jung colui “che parla con immagini primordiali (nel nostro caso l’artista) è come se parlasse con mille voci; egli afferra e domina, e al tempo stesso eleva, ciò che ha designato dallo stato di precarietà e di caducità alla sfera delle cose eterne; egli innalza il destino personale a destino dell’umanità e al tempo stesso libera in noi tutte quelle forze soccorritrici che hanno sempre reso possibile all’umanità di sfuggire ad ogni pericolo e di sopravvivere persino alle notti più lunghe.”, è quindi alla riattivazione, al riemergere di queste immagini che si deve la creazione artistica: “Il processo creatore, per quanto possiamo seguirlo, consiste in una animazione inconscia dell’archetipo, nel suo sviluppo e nella sua formazione fino alla realizzazione dell’opera perfetta.”
Quindi, realizzare un’opera d’arte, per Jung, significa dare un linguaggio attuale all’immagine primordiale, in modo che ognuno può mettersi in relazione con le fonti più profonde della vita, relazione che, fino a quel momento, era stata interdetta.
E’ proprio in questo che sta il valore sociale dell’arte, in quanto in questo modo “essa lavora continuamente all’educazione dello spirito contemporaneo facendo sorgere le forme che più gli difettano.” L’artista s’impossessa di queste immagini, traendole dal più profondo inconscio, per riavvicinarle alla coscienza, ne modifica la forma, in modo che esse possono essere accette all’uomo di oggi, a seconda delle sue capacità.
Per questo motivo, possiamo considerare l’artista come l’educatore della sua epoca.
L’artista quindi, secondo Jung, è colui che è capace di regredire sino a raggiungere le immagini primordiali inconsce, capaci di compensare le manchevolezze del presente, manchevolezze che non fanno parte soltanto della personalità dell’uomo creativo, ma appartengono anche alla realtà storico-
sociale, collettiva, in cui l’artista vive e sono, quindi, manchevolezze dello spirito contemporaneo. Per manchevolezze Jung intende gli ‘atteggiamenti’, gli ‘orientamenti’ interiori che i popoli, le epoche e i singoli individui hanno in quanto “L’espressione ‘atteggiamenti’ - egli dice - tradisce già la parzialità inevitabile di ogni orientamento determinato. Orientamento significa esclusione; l’esclusione sta a significare che una determinata quantità di elemento psichico, che potrebbe anch’esso vivere, non è autorizzato a manifestarsi, poiché non corrisponde più all’atteggiamento generale.”
Ciò che caratterizza l’artista rispetto all’uomo normale, secondo Jung, è che, mentre quest’ultimo può tollerare senza danno l’indirizzo generale, cioè i valori dominanti nella cultura del suo tempo, l’artista è relativamente incapace di adattarsi al collettivo, ma questo è anche il suo vero vantaggio poiché gli permette di tenersi lontano dalle grandi vie prestabilite e di seguire, invece, la propria aspirazione e di scoprire in sé ciò che manca anche agli altri, senza che essi lo sappiano, ovvero scoprendo ciò che si trova al di fuori della ‘grande strada’ e che attende il tempo di manifestarsi ed essere riconosciuto: “Come nel singolo individuo l’unilateralità dell’atteggiamento cosciente è corretta da reazioni inconsce di autoregolazione, così l’arte rappresenta, nella vita delle nazioni e delle diverse epoche, un processo di autoregolazione spirituale.”
Il tipo dell’opera d’arte ci permette di trarre, secondo l’insegnamento junghiano, conclusioni sul carattere dell’epoca in cui essa è apparsa, di che cosa rappresentano, per la loro epoca, il naturalismo e il realismo e di rispondere alle domande: che cos’è il romanticismo? Che cos’è l’ellenismo? “Sono orientamenti dell’arte che misero in luce quanto v’era di più necessario per l’atmosfera spirituale di ogni epoca.”
L’uomo creativo di Neuman
Abbiamo visto che per Jung le creazioni artistiche sono il risultato di un processo di autoregolamentazione psichica, sono cioè il risultato di compensazioni alla eccessiva unilateralità della coscienza.
Anche Neuman pone questa concezione alla base della sua interpretazione del processo creativo. Come già aveva fatto notare Jung, Neuman individua, nella vita psichica dell’uomo, una tendenza alla realizzazione della personalità nella sua totalità. E’ questa tendenza alla totalità che compensa i disturbi dello sviluppo, in quanto essa tenta di controbilanciare le unilateralità eccessive con movimenti contrapposti, per lo più inconsci. Come infatti Neuman scrive “La legge di autoregolamentazione dell’individuo, valida non solo per la sua vita organica ma anche per quella psichica, si esprime sempre anche in ciò, nel tentativo di inserire il ‘punto labile della psiche’, contrassegnato dal complesso personale, nella totalità. Ciò avviene in primo luogo con lo svilupparsi di fantasie tutt’attorno alla zona complessuale.”
I disturbi dello sviluppo vengono determinati, secondo Neuman, dalla nostra situazione culturale. La condizione originaria del bambino è una condizione di totalità, in cui non esiste ancora interno ed esterno, “E’ il tempo in cui dietro a ogni gioia e a ogni dolore sta ancora il mondo nella sua totalità indivisa, che scorre incessantemente senza che la si possa afferrare con l’Io”. Nella nostra cultura lo sviluppo della coscienza individuale porta, mediante relazioni personali ed i rapporti con il proprio ambiente e la propria generazione, alla progressiva eliminazione dei condizionamenti archetipici della psiche infantile e al trasferimento del legame con i grandi archetipi dell’infanzia, sui canoni archetipici della cultura contemporanea (ciò avviene attraverso l’accentuazione sempre più forte dell’Io, della coscienza e dell’ambiente). Questo processo determina il
fatto che il mondo infantile e la sua spiccata tendenza alla totalità, che vuol dire un diretto contatto con il Sé, vengono repressi a favore di un adattamento normale. Ora si comprende che, nell’esperienza infantile, avviene sempre che al personale è legato il trans personale e l’archetipico e “Se si comprende che cosa significhi vivere una tale unione di trans personale e personale –in cui Io e umanità sono ancora una cosa sola- ci si chiede come sia possibile, per quali vie e per quali sforzi si debba passare per poter superare e dimenticare queste esperienze fondamentali, e in che modo vi riesca, tramite la sua formazione culturale, l’individuo medio…”. L’individuo medio, secondo Neuman, è vincolato all’unilateralità della nostra cultura basata esclusivamente sullo sviluppo della coscienza, quindi, l’individuo si è quasi irrigidito in una struttura di personalità unilaterale. Questa rigidità della coscienza tipica della nostra situazione culturale “lascia scorgere facilmente come il pericolo che più incombe sull’individuo sia quello di un suo centrarsi esclusivamente sull’Io, che lo distacca dalla forza vitale dell’inconscio e lo conduce alla perdita del Sé.
La rimozione causata dalla rigidità di coscienza fa sorgere tutto un mondo sotterraneo dotato di una pericolosa carica emozionale, il quale tende a far irruzione…”, infatti rimozione non significa che le forze vengono trasformate, bensì solo che viene loro posto temporaneamente un freno. Tutto ciò determina il fatto che la nostra realtà è dominata, non solo dalla separazione degli opposti esistenti al suo interno, ma anche dalla pericolosa scissione dell’inconscio dal mondo della coscienza. Questa separazione degli opposti (Neuman li indica nella rigidità, cioè immobilismo e avversione a qualsiasi trasformazione, da una parte, e il caos esatto contrario della rigidità, cioè tutto ciò che è amorfo, disorganizzato, torbido e impuro, dall’altra) esistente all’interno dell’individuo impedisce la creazione e, quindi, la trasformazione, come risulta dalle stesse parole di Neuman “Queste due forme del negativo, cioè rigidità e caos, sono in
diretto contrasto col principio creativo, che racchiude in sé la trasformazione.”
“La trasformazione creativa invece rappresenta fondamentalmente un processo totale in cui la creatività si presenta, in ultima analisi, non come un’irruzione che genera ossessione (che porta a una trasformazione parziale sopraffacendo la coscienza e il suo centro L’Io) bensì come una forza legata al Sé, al centro della totalità. Infatti solo se la contro versione stabilita da tutto il complesso della personalità continua a essere l’elemento direttivo, si arriva a un superamento dell’ossessione parziale provocata da un unico contenuto, e la legge di compensazione del mondo psichico porta allora a un processo dialettico incessantemente rinnovantesi tra i contenuti inconsci che man mano si costellano e la coscienza li elabora. Si arriva così all’ininterrotto processo di creazione caratteristico della trasformazione creativa, nel quale nuove costellazioni dell’inconscio e della coscienza sono collegate con nuove produzioni e nuove fasi di trasformazione della personalità. La creatività, indipendentemente dalle modalità del suo manifestarsi, vale a dire indipendentemente dal fatto che si presenti come irruzione o come processo graduale di crescita o come tutte e due le cose insieme, investe e trasforma tanto la coscienza quanto l’inconscio, tanto il rapporto dell’Io col Sé quanto quello dell’Io col Tu.”.
A questo punto, si pone il problema di sapere cosa caratterizza l’uomo creativo, che fa sì che egli sfugga al destino dell’uomo medio.
A partire dall’infanzia l’uomo creativo, a differenza dell’individuo medio, non verrà più abbandonato dalle esperienze in cui il reale viene vissuto nella sua unità, egli ritornerà continuamente alle grandi immagini misteriose della esistenza archetipica. “Queste immagini si rispecchiano per la prima volta nel pozzo dell’infanzia e giacciono immobili sul suo fondo, finché un giorno non ce ne ricordiamo e, ripiegandoci su noi stessi, non
le scorgiamo di nuovo oltre il bordo del pozzo, così come le abbiamo lasciate.” Naturalmente l’uomo creativo è soggetto a tutte le tendenze e a tutti gli sviluppi dell’individuo medio ed egli, in un certo qual modo, è anche disposto ad assecondarli, ma secondo Neuman, uno normale è in lui ostacolato dalla sua natura che gli impedisce di adattarsi completamente alla realtà e di aderire ai canoni collettivi, per cui già la giovinezza dell’uomo creativo è spesso atipica. “L’uomo creativo è, fin dall’inizio, fortemente caratterizzato dal fatto che egli non abbandona la via che lo condurrà alla totalità del Sé per raggiungere l’adattamento alla realtà ambientale e ai suoi valori dominanti”. E’ questo suo conflitto con l’ambiente che inizia presto ed anche molto intenso, che determina la falsa interpretazione che si dà dell’uomo creativo, in quanto tale conflitto fa naturalmente pensare anche a un comportamento morboso, ciò avviene proprio perché nell’infanzia e nella giovinezza il creativo e l’abnorme, cioè il morboso, sono molto vicini fra loro. “Infatti, in contrasto con le istanze dei canoni culturali, l’uomo creativo si mantiene fedele tanto al mondo archetipico quanto alla sua originaria ambivalenza sessuale e alla sua totalità, vale a dire al Sé”. E’ questo attaccamento dell’uomo creativo alla propria sensibilità che è, insieme, un’espressione di fedeltà alla propria individualità e un essere vigili nei confronti del proprio Sé, sentito come propria necessità, come proprio compito o come proprio dovere, che determina il conflitto col mondo, con l’adattamento ad esso, coi canoni culturali, “vale a dire, secondo l’antico schema del mito dell’eroe, con l’immagine paterna della tradizione.” Ciò fa sì che “Come l’eroe del mito, l’uomo creativo si contrappone al mondo dei padri, cioè al mondo dei valori dominanti, perché in lui il mondo archetipico e il Sé che lo governa sono esperienze così travolgenti, vive e dirette che non possono essere rimosse. L’uomo normale viene liberato dal suo compito eroico dall’educazione istituzionale a identificarsi con l’archetipo paterno: egli diventa così un membro perfettamente inquadrato nel gruppo cui
appartiene e che è diretto in modo patriarcale. Di contro, nell’uomo creativo con il suo prevalere dell’archetipo materno, l’Io, oscillante e incerto, deve imboccare da solo la via archetipica esemplare dell’eroe: uccidere il padre, detronizzare il mondo convenzionale dei canoni che gli sono stati tramandati, e cercare un’istanza che lo diriga oscuramente, il Sé difficilmente conoscibile, l’ignoto padre divino.”.
Quindi l’uomo creativo realizza due aspetti molto importanti: primo, egli rappresenta il tipo umano che anticipa la trasformazione del suo canone culturale, secondo, il mondo da lui creato costituisce un’immagine adeguata della realtà primaria, che è unità non ancora rotta, non ancora influenzata dalla coscienza, dai canoni culturali; e questa realtà può farla venire alla luce solo una personalità che, creando, attinga alla sua totalità.
“La pretesa sensibilità di questo tipo psicologico fa sì che esso viva i suoi complessi personali in modo particolarmente intenso. Ma, dal momento che i suoi complessi egli li vive sempre frammisti ai loro corrispondenti archetipici, fin dall’inizio questa sofferenza non è esclusivamente privata personale, ma è contemporaneamente una sofferenza esistenziale, in un primo tempo inconscia, per i problemi fondamentali dell’umanità che si costellano in ogni archetipo”. Questa caratteristica determina, in ogni uomo creativo, il pericolo sempre presente dell’abisso della malattia, in quanto in lui è caratteristica una intima tendenza a non proteggere e guarire, come l’individuo medio, attraverso un progressivo adattamento al collettivo, le ferite personali che sono inevitabilmente connesse a ogni sviluppo. “In lui queste ferite rimangono aperte; ma la sofferenza che esse procurano viene vissuta fino a una profondità dalla quale affiora un’altra forza risanatrice, cioè il processo creativo. Poiché l’uomo creativo nella propria sofferenza personale soffre in prima persona anche per le ferite, ancor più profonde del suo collettivo e del suo tempo, egli è in grado di produrre dalla forza rigeneratrice delle sue
profondità ciò che può guarire non solo lui stesso ma anche la comunità.”
E’ questa vulnerabilità dell’uomo creativo che determina un ripiegamento sul centro della totalità, il Sé, il quale con costanti tentativi di compensazione incrementa lo sviluppo dell’Io e ne rafforza quella stabilità che deve servire da freno ad una preponderanza eccessiva degli archetipi. Nella continua tensione tra un mondo archetipico ben desto e minaccioso e un Io rafforzato per compenso, che non trova alcun punto di appoggio nei valori dominanti, l’unico e vero sostegno dell’Io rimane il Sé, il centro della propria totalità di individuo che è, però, nello stesso tempo “assai più una realtà infinita che una realtà esclusivamente individuale”. E’ opinione di Neuman, infatti, che la sintesi del processo creativo consista appunto nell’unione del trans personale, cioè l’eterno, col personale, al contrario, tutto ciò che è solo personale è insignificante, e tutto quello che è soltanto sovra personale è in sé privo di importanza perché inaccessibile. L’opera dell’uomo creativo consiste allora nel plasmare contemporaneamente questa ‘eternità’ come qualcosa che si trasforma costantemente e che acquista per mano sua nuove forme, da cui vengono trasformati insieme lui stesso e il suo tempo: “Una delle caratteristiche fondamentali dell’esistenza creativa consiste nel fatto che essa, in quanto attività, produce per la cultura qualcosa di oggettivamente significativo, ma nello stesso tempo tali realizzazioni rappresentano sempre fasi soggettive di uno sviluppo individuale, dell’individuazione dell’uomo creativo.”
E’ parere di Neuman che “Nei simboli della creatività si trova, sia contenutisticamente che emozionalmente, una forza rigeneratrice del suo tempo; (dell’uomo creativo) in essa è contenuto in germe tutto lo sviluppo futuro”, sia del singolo uomo creativo, sia della collettività.
Le motivazioni dell’artista
Prima di entrare nel merito delle analisi del processo creativo bisogna accertare, a nostro avviso, qual è il fine della creazione artistica, quali sono, cioè, le esigenze che l’artista soddisfa nel compiere questa attività, o meglio, le motivazioni psicologiche all’attività creativa.
Anche Storr condivide questa impostazione, infatti, egli scrive che “…son state fatte un’enorme quantità di ricerche e di speculazioni per comprendere il modo in cui ha luogo il processo creativo, ma non ci si è preoccupati quasi affatto dei moventi del creatore stesso”. “Ci si aspetterebbe - scrive sempre Storr - che la psicoanalisi, essendo fondamentalmente interessata alla pulsione e al movente avesse gettato più luce di quanto non ha fatto su ciò che spinge la persona creativa”.
Molti psicoanalisti e lo stesso Freud hanno compiuto studi particolareggiati su opere d’arte e artisti. Attraverso lo studio delle produzioni di individui creativi, questi autori hanno individuato temi e preoccupazioni ricorrenti che rivelano molto della loro psicopatologia. Storr, a tal proposito, porta come esempio la biografia psicoanalitica di Conrad, scritta da Bernard C. Meyer: “L’autore riesce a dimostrare che Conrad aveva forti problemi connessi al feticismo; che tendeva a considerare le donne delle creature ‘falliche’ e dominanti; che il suo interesse per gli eroi forti e silenziosi risaliva alla sua infanzia, in cui era stato malaticcio e gracile; e che la morte di sua madre quando egli aveva sette anni esercitò effetti di lunga durata facilmente riscontrabili sia nella sua vita che nei suoi scritti”. Ma l’enumerazione dei tratti psicopatologici non getta necessariamente molta luce su ciò che spinge l’uomo, potenzialmente creativo, a fare uso produttivo del proprio dono. In altre parole, il rapporto tra la psicopatologia di Conrad e la sua scelta della professione di scrittore rimane comunque oscuro, poiché scrive Storr, “Molte persone hanno una psicopatologia
simile ma non scrivono”. Come abbiamo visto, Freud sostiene che l’artista può soddisfare le sue pulsioni sessuali soltanto nella fantasia, questo però significa, in altri termini, guardare l’artista sempre attraverso la lente della psicopatologia. Tale spiegazione, commenta Storr, “…pur possedendo un po’ di verità rimane molto parziale. Le realizzazioni di un Beethoven o di un Tolstoj non vanno poste allo stesso livello di una fantasia masturbato ria, sebbene possa essere abbastanza vero che la pulsione sessuale entri in qualche modo in tali realizzazioni”. La psicoanalisi, in questo modo, non distingue tra arte ‘buona’ e ‘cattiva’; né, cosa ancora più importante, tra opera d’arte e sintomo nevrotico.
Storr inoltre fa notare, nella concezione freudiana, un aspetto contraddittorio tale, da indurlo a parlare di ambivalenza di Freud nei riguardi della creazione artistica e degli artisti. L’aspetto in questione è il concetto di sublimazione. Freud riteneva senza dubbio che le opere d’arte fossero il risultato di una sublimazione, e, perciò, derivavano dai primitivi ed istintivi impulsi sessuali e forse anche aggressivi, dei quali in ultima istanza erano dei sostituti. Ciò comporterebbe, ad esempio, che il primitivo desiderio di esibire il corpo ed in particolare i genitali, può essere sublimato in modi di esibizione socialmente più accettabili, come presentandosi in pubblico o mediante discorsi, o producendo opere d’arte che possono essere esibite in luogo della persona dell’artista. Freud però sostiene anche, a proposito degli artisti che si sono sottoposti ad analisi psicologica, che i risultati sono stati chiari: “Quando l’impulso artistico è genuino, la maggiore libertà raggiunta attraverso l’analisi non può che aumentare le capacita artistiche…”. Ora nota Storr “Poiché uno dei compiti della psicoanalisi consiste nell’aiutare la gente a liberarsi della propria sessualità infantile e raggiungere la soddisfazione mediante l’integrazione di questi residui infantili, assoggettati alla supremazia della pulsione genitale, è difficile capire perché l’impulso artistico, negli artisti la cui analisi ha avuto successo, dovrebbe sfuggire alla dissoluzione analitica.”. Se cioè l’istinto
creativo è riducibile agli impulsi pregenitali orali, anali, fallici che nell’artista, secondo il punto di vista di Freud, sarebbero particolarmente accentuati; e se l’istinto creativo è il risultato di una sublimazione di tali impulsi; ne deriverebbe, in base alle posizioni teoriche sostenute da lui a da altri psicoanalisti, che con l’analisi (la quale permetterebbe di raggiungere il primato genitale, e quindi l’integrazione delle pulsioni ‘infantili’ e un’adeguata soddisfazione sessuale) l’istinto creativo dovrebbe venir meno o dovrebbe essere notevolmente diminuito, mentre, come abbiamo visto, Freud afferma esattamente il contrario.
La difficoltà che s’incontra nel risolvere questa contraddizione deriva, secondo Storr, dall’assunto della psicoanalisi che afferma “che tutti i conflitti infantili possono essere risolti, o dovrebbero essere risolti, e che tutti i problemi emotivi dell’uomo vengono dissipati mediante la tempestosa liberazione di orgasmi regolari e ripetuti…”, “Se tralasciamo questo assunto, possiamo tralasciare anche l’idea che l’opera d’arte sia ‘necessariamente’ un sostituto per qualcosa d’altro.” Ciò non significa però che essa non sia mai un sostituto, infatti, Storr nota che vi sono senz’altro produzioni artistiche alle quali, la concezione freudiana della creatività come esaudimento di desiderio, può essere applicata con successo. A tal proposito, egli illustra due casi, di “Hadrian VII” di Frederick Rolfe e quello di James Bond, protagonista di una serie di romanzi polizieschi di Ian Fleming; le forze motivazionali, alla base di queste creazioni, concordano con i desideri motivanti della varietà menzionata da Freud e cioè, desideri di ambizione insoddisfatti nel primo caso, desideri erotici nel secondo caso.
Secondo Storr, Freud rivolgendosi più al contenuto del lavoro letterario che al problema delle motivazioni che hanno spinto l’artista a scegliere questa o quella modalità per esprimere i suoi desideri insoddisfatti, non ci spiega come mai così poche persone si rivolgono, per esempio, alla letteratura, o a qualsiasi altra attività creativa, per compensare le proprie delusioni, visto che gli esseri umani, anche i più fortunati, per il fatto stesso di esistere,
devono necessariamente avere dei desideri che rimarranno sempre insoddisfatti.
Si potrebbe pensare che il motivo che spinge un uomo all’attività creativa è il talento, avere cioè la capacità di servirsi di un’arte per esprimere le proprie fantasie, ma avere del talento non è motivo sufficiente a spiegare la scelta dell’attività creativa in quanto, nota Storr, vi sono persone dotate che potrebbero chiaramente essere creative, alle quali tuttavia non interessa esserlo.
“La formulazione di Freud, benché sia appropriata per certi generi di imprese creative, ci lascia insoddisfatti a causa della sua incompletezza; non spiega perché certe persone sembrano spinte a formulare le loro fantasie, mentre altre, egualmente dotate, ed egualmente propense a sognare ad occhi aperti, non lo fanno”.
Come abbiamo visto nella concezione freudiana, gli obiettivi, cui tende l’artista, sarebbero onore, potere, ricchezza, fama e l’amore delle donne. Storr prende in esame tali mete una per una. Vediamo quali sono le sue conclusioni. Per quanto riguarda la ricchezza, in effetti, dalla lettura della rivista “The Author”, la quale illustra il modo in cui gli scrittori possono aumentare i loro guadagni, chiedere più denaro ai loro editori, ottenere vantaggi per diritti secondari ecc…, Storr considera che si potrebbe essere indotti a credere che la ricchezza sia un movente molto importante. Ma il motivo di tale preoccupazione per il denaro deriva dal fatto che la ricompensa finanziaria è, per la maggior parte degli artisti, alquanto misera, infatti, nella nostra cultura, esiste un rapporto inverso tra le forme più alte di produzione creativa e il compenso finanziario: le forme più effimere, come giornalismo, pubblicità, canzonette e fumetti consentono guadagni molto lauti mentre, forme più alte, come lo scrivere romanzi, comporre sinfonie, dipingere quadri, consentono guadagni molto magri. Per cui “E’ talmente improbabile che nel corso del suo lavoro l’artista arrivi alla ricchezza e al potere” che possiamo lasciar cadere l’idea secondo cui il movente primario che lo spinge
a praticare la sua arte sia l’acquisizione dell’una o dell’altro. Per le persone che ne sono capaci esistono modi più semplici di fare denaro che non la pratica delle arti.
Anche per quanto riguarda l’amore, Storr conclude che non si può considerarlo un movente primario, in quanto non sembra che gli artisti abbiano con le donne un successo minore di quello degli altri uomini, non vi sono però prove decisive che il loro successo sia maggiore.
Per quanto riguarda gli ultimi due moventi cioè, onore e fama, Storr conclude “Sebbene non sia probabile che la ricerca dell’onore e della fama costituisca un movente primario dell’attività dell’artista, è però probabile che sia un movente secondario…il desiderio di fama ed onori fa parte, è soltanto parte, del movente dell’artista. E’ connesso con la totalità della sua personalità e con l’attività artistica; non può perciò essere soddisfacente di per sé, per così dire, come nel caso di una personalità televisiva o di un modello. La fama per molti artisti è uno sprone; ma la fama come risultato del successo nella pratica della loro arte, non la fama fine a se stessa come fenomeno isolato.”
Schwarz vede nell’aspirazione all’immortalità una motivazione essenziale del processo creativo: “Spettò ad Otto Rank di individuare l’aspirazione all’immortalità come una fondamentale forza dinamica del processo creativo. L’inconscio non rinuncia mai alla sua fede nell’immortalità; l’arte è espressione dell’impulso dell’individuo a creare, impulso, a sua volta radicato nell’insopprimibile fede dell’uomo nella propria immortalità.”
Per Kris l’esigenza che l’artista soddisfa attraverso l’arte è quello dell’espressione, cioè il poter comunicare con il mondo: “Consciamente o inconsciamente l’arte si propone sempre una comunicazione… lo studio dell’arte appartiene allo studio della comunicazione. C’è chi trasmette e chi riceve; c’è un messaggio”.
Anche Schwarz sostiene che “L’arte è una forma e un modo di comunicazione”, così come Storr, che scrive, concordando con Kris: “Sebbene la creazione sia un’operazione solitaria, in molti casi è anche una forma di comunicazione…”.
Ogni artista si propone, più o meno consapevolmente, di comunicare qualcosa di se stesso agli altri: un proprio modo di sentire le cose, il proprio mondo, la propria realtà, i propri conflitti, le proprie angosce, i propri desideri. In altri termini, l’artista ci comunica la sua unicità “…può trattarsi di un modo particolare di vedere, di pensare, d’inventare, di esprimere il pensiero e l’emozione, in questo caso l’individualità di un uomo può essere d’incalcolabile vantaggio per l’umanità intera”.
La conferma che la creazione artistica è un modo di comunicare, che risponde a una profonda esigenza umana, la possiamo trovare nei reperti archeologici, nei graffiti che, dai tempi della preistoria, testimoniano la presenza di forme espressive che ci hanno tramandato le usanze, la cultura di civiltà molto lontane nel tempo.
Ma ritorniamo all’ipotesi di Storr.
Generalmente l’attività creativa è faticosa e tormentosa; questo ci fa interrogare su quale possa essere la motivazione che spinge gli esseri umani ad insistere nel sopportare simili frustrazioni, pur di dar vita alle loro nuove concezioni. “Molto spesso, e specialmente quando la persona creativa è giovane e priva di esperienza, lo sforzo richiesto è considerevole, e la ricompensa misera”. Secondo Storr, l’attività creativa sarebbe, infine, impiegata come difesa.
Secondo la teoria psicoanalitica l’Io umano è vulnerabile all’angoscia, dalla quale, poiché l’angoscia non è piacevole, esso tenta di difendersi. L’Io si serve di una quantità di tecniche diverse per affrontare e trattare le angosce dalle quali è minacciato. Storr sostiene “che l’attività creativa non soltanto può essere usata in questo modo, ma che, per molti aspetti, è particolarmente adatta a scopi difensivi”. In altri termini, Storr considera l’attività creativa
come un possibile mezzo mediante cui l’Io respinge il dispiacere e l’angoscia. A questo punto, si pone il problema di quali siano gli stati di dispiacere e di angoscia contro cui la produzione creativa può essere usata come difesa. Storr riportando il pensiero di Fairbain, uno psicoanalista originale e non ortodosso, indica nello stato depressivo e nello stato schizoide le due situazioni fondamentali di sofferenza contro le quali l’artista si difende. “L’emozione caratteristica del primo è un sentimento di disperazione e infelicità. L’emozione pertinente al secondo stato è di futilità e di assenza di significato”. Se, quindi, lo scopo degli individui è di evitare la ricaduta in questi due stati”, è evidentemente, di enorme importanza che “qualsiasi mezzo atto allo scopo, per quanto faticoso, deve essere necessariamente salutato come un benvenuto sollievo per il sofferente”.
Una tale ipotesi ci sembra plausibile e ci permetterebbe di dare una risposta all’interrogativo che ci eravamo posti, cioè del perché tali persone intraprendano un lavoro creativo quando non è affatto ovvio che ciò porterà loro una qualsiasi ricompensa immediata e, anche quando, per esse un simile lavoro è difficile ed esige un notevole sforzo. “Se il lavoro creativo protegge l’uomo dalla malattia mentale, non c’è da stupirsi che egli lo persegua con avidità; ed anche se lo stato mentale che egli cerca di evitare non è nulla di più che un leggero stato di depressione o apatia; ciò continua a costituire un motivo cogente per lavorare creativamente anche quando questo non reca con sé alcun ovvio beneficio esterno.”
Comunque, conclude Storr “Il fatto che l’attività creativa, o qualsiasi altra attività, possa essere usata come difesa non significa che essa venga sempre impiegata allo stesso modo. Né si può affermare che questa ipotesi riveli la forza motivante che spinge tutti gli scienziati o gli artisti creativi. Ma che alcuni siano spinti in questo modo è chiaro…”.
In ultimo, un altro movente individuato da Storr è la ricerca, da parte dell’artista, della propria identità.
“Il compositore serio che riflette sulla sua arte prima o poi si troverà a porsi la domanda: perché per la mia psiche è così importante che io componga musica? Perché l’impulso creativo non è mai soddisfatto? Perché si deve sempre ricominciare di nuovo?”. Per ciò che riguarda la prima domanda (il bisogno di creare), la risposta è sempre la stessa: l’auto-espressione. Ma perché il lavoro non si conclude mai? Perché si deve iniziare sempre daccapo? Il motivo di questa coazione a creare nuovamente è che ogni nuova opera porta con sé un elemento di auto-scoperta. Devo creare per conoscere me stesso e, poiché l’autoconoscenza è una ricerca senza termine, ogni nuova opera è soltanto una risposta parziale alla domanda “chi sono?” e reca con sé il bisogno di andare verso altre e diverse risposte parziali.
La funzione dell’arte
Abbiamo appena visto quali esigenze individuali (dell’artista) l’arte appaghi. Ma l’arte, oltre a soddisfare l’esigenze del singolo artista, soddisfa anche esigenze di altri individui; l’arte assume, in altri termini, una funzione sociale.
Insieme a Storr, non si può fare a meno di osservare come, nella concezione freudiana, sia il gioco che la fantasia siano trattate in un’accezione negativa, come mere evasioni dalla vita reale. Scrive Freud: (l’artista) “rappresenta come appagate le sue fantasie di desiderio, più personali, ma queste divengono opera d’arte soltanto attraverso una trasformazione che mitiga l’aspetto urtante di questi desideri, ne cela l’origine personale e offre agli altri, rispettando le regole estetiche, seducenti premi di piacere.” Per Freud, quindi, la creazione artistica esprime l’autoliberazione di desideri dell’artista. Il piacere e l’apprezzamento, che gli altri provano di fronte all’opera d’arte, deriva dal fatto che essa provoca, anche nei fruitori, una liberazione di tensioni della psiche che condividono con l’artista. La funzione che Freud attribuisce all’arte è una funzione terapeutica o guaritrice, le opere d’arte
possono essere paragonate ad una abreazione: permettono uno sfogo; liberano la psiche dagli impulsi che non possono trovare espressione nella vita ordinaria ed offrono una compensazione per le delusioni della realtà. Ora, nota Storr, anche se vi sono in effetti artisti che usano la fantasia per sfuggire alla realtà, non dobbiamo necessariamente disprezzare gli sforzi con cui cercano di darci quella che potrebbe essere un’utile valvola di salvezza; “Se accettassimo questa tesi originaria di Freud, saremmo costretti a liquidare l’arte come non funzionale rispetto all’adattamento biologico; una attività che si oppone concretamente alla sopravvivenza. Infatti tutto ciò che incoraggia l’uomo a sfuggire la realtà piuttosto che a parteciparvi e ad accettarla, o a dominarla, non può essergli d’aiuto quando si trova di fronte ai fatti concreti dell’esistenza.” Possiamo, invece, constatare che l’interesse dei grandi romanzieri, come ad esempio Georg Eliot, Tolstoj e Proust, non è rivolto alla fuga. “Utilizzano le loro immaginazioni, per penetrare oltre gli aspetti superficiali e raggiungere una verità più profonda e più ricca. I loro romanzi sono dei tentativi di produrre, traendolo dalla propria esperienza e visione della vita, un certo tipo di coerenza e integrale totalità; e, per virtù delle loro percezioni, anche le loro vite vengono arricchite”. La visione di Freud, così come non rende giustizia alla funzione di adattamento del gioco, svaluta anche la funzione di adattamento dell’arte che può aumentare la nostra consapevolezza della realtà, invece di essere semplicemente un mezzo per scappare da essa. Per Storr, l’arte ha un’importante funzione sociale, infatti, dice che “…le opere d’arte aumentano e rendono più profondo il nostro apprezzamento della vita invece di mostrarci le vie per fuggire da essa”. Lo stesso è vero del gioco. “Sia l’arte che il gioco sono legati alla norma e al rituale; ed ambedue tendono, perciò, ad imporre una certa forma a ciò che altrimenti sarebbe caotico. Inoltre sia il gioco che la creatività possono essere considerati come delle attività che favoriscono l’adattamento, nel senso che forniscono una quota addizionale per
stimolare e tenere sveglio il sistema nervoso”. Possiamo senz’altro concludere che, per Storr, sia l’arte verbale sia quella visiva hanno una funzione direttamente e praticamente d’adattamento oppure possono facilmente essere un effetto dell’impulso a comprendere e padroneggiare l’ambiente. “Se ci rivolgiamo al pittore affinché ci dia nuovi schemi tramite i quali riusciamo ad apprezzare più pienamente, e quindi adattarci meglio, alla realtà del mondo esterno compresa per mezzo della vista, possiamo concludere che anche l’aspetto estetico della pittura ha una funzione di adattamento; sebbene in senso meno ovvio, più internalizzato, più psicologico”.
Anche Arnheim riconosce le stesse funzioni indicate da Storr. Anch’egli critica la concezione dell’arte come fuga dalla realtà o quale surrogato della vita, come possiamo notare dalle sue stesse parole: “I pregiudizi psichiatrici hanno creato un problema, suggerendo che l’arte sia un sostituto del vivere vero e proprio. Si dice che essa offra soddisfazioni vicarie, che sostituiscono quanto realmente vogliamo ma non siamo capaci di ottenere o per cui non abbiamo il coraggio di combattere. In altre parole, si descrive l’arte come una fuga nevrotica dalla vita”.
Per Arnheim “La vera e propria attività artistica non è né un sostituto né una fuga, ma uno tra i modi più diretti e coraggiosi di occuparsi dei problemi della vita”.
Se l’arte è un modo di occuparsi della vita, come afferma Arnheim, in quale maniera particolare se ne occupa? A questo proposito Arnheim indica una delle funzioni illustrate da Storr e cioè che l’arte attiene “Uno dei compiti fondamentali dell’uomo che è esaminare e comprendere il mondo, trovare ordine e legge all’esterno ed all’interno di se stesso”.
Anche Kris indica, tra le funzioni dell’arte, il bisogno di padroneggiare la realtà. “L’artista non rappresenta la natura. Né la imita, ma la crea di nuovo. Con la sua opera egli domina la realtà”.
Kris, inoltre, mette in risalto la funzione comunicativa dell’arte. Per Kris l’arte è una specifica modalità di comunicazione tra l’uno e i molti: “Lo studio psicoanalitico della creazione artistica ha abbondantemente dimostrato l’importanza del pubblico per il processo creativo: dovunque abbia luogo la creazione artistica, esiste l’idea di un pubblico, sebbene l’artista possa attribuire questa parte solo a una persona, reale o immaginaria. L’artista può esprimere indifferenza, può eliminare dalla sua consapevolezza la nozione di un pubblico, può minimizzarne l’importanza. Ma un pubblico di qualche genere viene alla superficie dovunque si scavi l’aspetto inconscio della creazione artistica”.
Interpretare l’opera d’arte: Perché?
Continuamente si parla dell’interpretazione dell’opera d’arte e qualcuno potrebbe chiedere: “che bisogno c’è di interpretare?” Il bisogno dell’interpretazione nasce dal fatto che la creazione artistica, al pari del sogno, è per lo psicologo una manifestazione dell’inconscio, che segue “regole” e si esprime in un linguaggio diverso da quello logico e comprensibile immediatamente dalla coscienza. Con ciò non vogliamo affermare che le creazioni artistiche siano delle rappresentazioni dirette e fedeli dell’inconscio poiché, come afferma Arnheim, “…non può esservi qualcosa come la rappresentazione diretta dell’inconscio, perché, come ha indicato con estrema chiarezza Freud, l’inconscio può manifestarsi soltanto indirettamente…”.
E’ questa diversità di linguaggio delle manifestazioni inconsce che crea difficoltà nella comprensione del loro significato. Nei riguardi dell’arte moderna, ad esempio, “In molti casi l’uomo della strada deve far l’occhio a nuovi tipi di linee e di colori. Egli deve imparare il nuovo linguaggio espressivo, proprio come imparerebbe una lingua straniera, prima di poter emettere giudizi sui valori espressivi dell’opera d’arte”.
Tutto ciò spiega il fatto che due attività dell’uomo tra le più importanti, dato il potenziale messaggio conoscitivo in esse contenuto, vengano di fatto svalutate e non siano prese in considerazione dalla maggior parte delle persone. Quante persone rifiutano l’arte, in special modo quella moderna, come non danno importanza ai sogni perché non sanno leggerne il linguaggio e quindi comprenderne il significato?
Questo linguaggio inconscio è stato scoperto e studiato per la prima volta in modo sistematico da Freud e Jung e dai loro allievi, e a loro dobbiamo la formulazione delle prime leggi fondamentali del suo funzionamento. Un autore, I. Matte Blanco, ha approfondito lo studio di questo linguaggio individuando alcune caratteristiche.
Ancona riassumendole in un suo scritto, così le presenta; “…le caratteristiche del pensiero inconscio sono regolate da una logica diversa da quella aristotelica, bivalente, cioè sono rette dalla logica cosiddetta simbolica. In realtà Matte Blanco ha messo in evidenza che le manifestazioni più profonde dell’inconscio possono ricondursi a due principi: quello di generalizzazione, quello di simmetria. E come corollari importanti del principio di simmetria, confermati dalla clinica Matte Blanco ha indicato: a) l’uguaglianza fra le parti e il tutto; b) l’assenza di spazio; c) l’assenza di tempo; d) la negazione del principio di contraddizione”.
Attraverso la comprensione delle caratteristiche che regolano il processo inconscio, noi possiamo capire i messaggi che esso invia, per esempio, attraverso i sogni, l’arte e tutte le altre creazioni umane che possono considerarsi parimenti come manifestazioni inconsce.
Jung attribuisce un valore molto importante, nella sua teoria psicologica, al concetto di psiche inconscia come fonte di sapere, infatti egli afferma “Noi sappiamo con certezza che l’inconscio dispone di contenuti tali che, se potessero esser resi coscienti, rappresenterebbero un incalcolabile aumento di conoscenza”.
L’artista: Genio e Follia
Di solito, riferendosi alla personalità dell’artista, sorge il problema della sua psicopatologia. Le biografie dei grandi artisti sono piene di fatti, comportamenti, idee ritenute dai più bizzarre, strane, che confermerebbero, secondo molti, questa opinione, per cui, come afferma Kris, “…la ricerca del genio nella follia è diventata di moda”.
Nelle opere artistiche, in special modo in quelle moderne, possiamo notare realizzazioni le più svariate, le più inconsuete, le più strane e assurde tali da rinforzare nella gente la convinzione appena citata. Abbiamo già visto che la stranezza e l’apparente assurdità delle creazioni artistiche è dovuta al fatto che esse seguono un linguaggio e delle regole dell’inconscio e ciò, quindi, non significa necessariamente patologia.
Anche Freud e Jung, i primi a interessarsi alle manifestazioni apparentemente illogiche e addirittura assurde dell’inconscio, in un primo momento videro nelle moderne espressioni artistiche manifestazioni patologiche, come è dimostrato da alcune loro affermazioni. Jung, ad esempio, quando fu invitato da Ernest Jones ad esprimere un’opinione sul movimento dadaista, così lo definì “E’ troppo idiota per qualunque pazzia decente”. Nel 1932, definì ‘arte singolare’, quella di Picasso e aggiunse “In base alla mia esperienza posso garantire al lettore che la problematica psichica di Picasso, così come si esprime nella sua arte, è perfettamente analoga a quella dei miei pazienti”.
Freud, dopo aver conosciuto Salvador Dalì, dichiarò “Fino a ora ero incline a considerare i surrealisti che sembra mi abbiano prescelto come loro santo patrono, dei puri folli, o diciamo puri al 95 per cento, come l’alcool…”.
Abbiamo visto come anche due eminenti studiosi nel campo della psicologia, che pure avevano scoperto e studiato l’inconscio, videro, in un primo momento, nelle stranezze e assurdità dell’arte
moderna emergente, manifestazioni psicopatologiche. Questo proprio perché l’arte moderna rompeva con tutte le idee e rappresentazioni tradizionali consolidate della forma; un capovolgimento di valori che non era frutto di puro anticonformismo, come ritenuto da molti, ma naturale espressione di nuovi contenuti, nuove forme, nuovi messaggi provenienti dalla sfera appena scoperta, e quindi, fatta oggetto di conoscenza, cioè l’inconscio; non a caso, infatti, i surrealisti avevano scelto Freud quale loro “santo patrono”.
Jung, nonostante questi primi giudizi, ha elaborato in seguito una teoria interpretativa della creazione artistica che contesta energicamente il concetto dell’artista nevrotico sostenendo che “Se un’opera d’arte è interpretabile allo stesso modo di una nevrosi, ne viene di conseguenza che, o l’opera d’arte è una nevrosi, oppure una nevrosi è un’opera d’arte”. Jung affronta in modo diverso l’aspetto patologico che affiora nell’arte moderna in uno scritto su Joyce. In questo scritto afferma che “…lo schizofrenico possiede la tendenza di alienarsi dalla realtà o, viceversa, di alienare da sé la realtà. Certo nello schizofrenico non si tratta solitamente di un’intensione manifesta, ma di un sintomo che deriva necessariamente dall’originaria disgregazione della personalità in frammenti di personalità. Presso l’artista moderno quella tendenza non è dovuta a malattia individuale, ma costituisce invece un fenomeno dei tempi; l’artista non obbedisce a un impulso individuale, bensì a una corrente collettiva, la quale non ha certo la sua origine direttamente nella coscienza, bensì nell’inconscio collettivo della psiche moderna. Poiché si tratta di una manifestazione collettiva, essa si esplica identicamente nei campi più diversi, nella pittura come nella letteratura, nella scultura come nell’architettura”. In altre parole L’Ulisse di Joyce “non è il prodotto di un cervello malato, come non lo è l’arte moderna”. “La deformazione della bellezza e del senso per mezzo di una grottesca obiettività o di una non meno grottesca irrealtà costituisce presso il malato una conseguenza dello sfacelo della
personalità, ma nel caso dell’artista si tratta di intenzione creatrice. Ben lontano dallo sperimentare e soffrire nella sua opera l’espressione della disgregazione della propria personalità, l’artista moderno scopre nell’elemento distruttore la vera unità della sua personalità artistica.” Queste ultime affermazioni di Jung, riguardo l’arte moderna, hanno un valore di riscatto rispetto alle precedenti.
Anche Freud, quando conoscerà personalmente Salvador Dalì il 20 luglio del 1938, rivedrà in parte le sue posizioni. “Il giovane spagnolo con i suoi occhi evidentemente sinceri e fanatici e la sua innegabile maestria tecnica mi ha suggerito una diversa valutazione. Sarebbe davvero assai interessante esplorare analiticamente le origini di una pittura del genere. Eppure come critico uno potrebbe avere il diritto di dire che il concetto di arte resiste al fatto di essere esteso oltre il punto in cui il rapporto quantitativo tra il materiale inconscio e l’elaborazione preconscia non è mantenuto entro certi limiti”. Queste considerazioni ci aiutano a capire le ragioni di Freud per respingere il surrealismo come arte. Freud con il suo scritto sul motto di spirito ha indicato il modello germinale per spiegare qualsiasi creazione artistica. “Un’idea preconscia è esposta per un momento all’influenza dell’inconscio”. Secondo questa formulazione, ciò che il motto di spirito deve all’inconscio, non è tanto il contenuto quanto la forma. Nel motto di spirito, l’Ego non fa che usare questo meccanismo per investire un’idea di un fascino particolare. Un pensiero, che sarebbe forse brutale o indecoroso esprimere in chiaro, è immerso, per così dire, nella magica fonte del processo primario da dove esso emerge trasformato in qualcosa di ricco e di strano. Evidentemente per Freud non c’era alcun valore artistico nel processo primario in quanto tale. Si tratta di un meccanismo che è comune ad ogni intelletto, al più debole al più sviluppato. Se Freud liquida sommariamente gli espressionisti e i surrealisti come matti, è perché sospetta che questi movimenti confondano i meccanismi in questione col l’arte. La “innegabile maestria
tecnica” di Dalì lo aveva convinto di essere stato un po’ frettoloso in questo giudizio. Tuttavia non lo convinceva molto il fatto che questa maestria fosse stata adoperata per dare ad un’idea preconscia, cioè comunicabile, una struttura derivante da meccanismi inconsci.
Vediamo ora come altri autori affrontano questo problema. Abbiamo visto, a proposito dei moventi dell’artista, che per Storr la creatività è una modalità espressiva che alcune persone dotate utilizzano per entrare in rapporto, o trovare soluzioni simboliche, alle tensioni e dissociazioni interne di cui, in varia misura soffrono tutti gli esseri umani. Infatti, la tesi sostenuta da questo autore è che sia inevitabile, per ogni essere umano, il portare con se dall’infanzia nella vita adulta, come parte del suo particolare adattamento, tratti ‘pregenitali’, atteggiamenti infantili e le insoddisfazioni che l’accompagnano. Si tratta ora di vedere, come generalmente si crede, se le persone creative presentano una psicopatologia più pronunciata, rispetto a coloro che sono egualmente dotati ma che non sono ‘costretti’ ad essere creativi.
Se si accetta la tesi di Storr, e cioè che le persone creative sono spinte a creare dalla loro psicopatologia, se ne potrebbe dedurre che l’uomo medio, che non è sottoposto a tale costrizione, è più sano dell’uomo creativo e che le persone creative presentano una psicopatologia più pronunciata, rispetto a coloro che sono egualmente dotati ma che non sono “costretti” ad essere creativi. Una tale deduzione ci indurrebbe in errore scrive infatti Storr che “La creatività può essere un modo per affrontare la psicopatologia, ma non è né nevrosi, né psicosi. In realtà, è proprio il loro opposto; vi sono buone ragioni per credere che la malattia mentale ostacoli la creatività”.
Ciò che caratterizza lo stato nevrotico e lo stato psicotico è il fatto che l’Io, il sé conscio e raziocinante, in questi stati, è stato in certa misura sopraffatto per cui “Per essere nevrotica o psicotica la psicopatologia di un uomo deve essere in un certo grado, fuori controllo, e rivelarsi sotto forma di sintomi”. I nevrotici e, più
ancora, gli psicotici, non hanno sostanzialmente il dominio dei propri mondi interni. Questa è la causa della loro sofferenza e dei sintomi che, per definizione, sono sentiti come alieni dall’Io conscio. Invece, nella persona creativa, notiamo un’insolita facilità d’accesso nel proprio mondo interiore, che essa rimuove molto meno della maggior parte della gente. “Quando è in grado di creare, non è certamente sopraffatta da esso, ma lo domina…”.
Invece, come abbiamo visto agli inizi anche con Freud e Jung, uno dei motivi per cui le persone creative vengono definite nevrotiche, anche quando non sono tali, è l’evidenza della loro psicopatologia; ma questa è evidente nelle loro opere, e non sotto forma di sintomi nevrotici, “Il lavoro è un adattamento positivo, mentre la nevrosi rappresenta un fallimento nell’adattamento”.
Anche Neuman sostiene che “…l’ossessione provocata da un complesso personale, da un contenuto emotivo, porta a una trasformazione parziale sopraffacendo la coscienza e il suo centro, l’Io. In tutti i casi in cui il complesso dell’inconscio personale porta a un’attività anziché a una nevrosi, vuol dire che, spontaneamente o per reazione, la personalità è riuscita a superare il carattere “esclusivamente personale-familiare” del complesso per approdare a un risultato significativo per il collettivo; cioè essa è riuscita a diventare creativa. Allora questo complesso personale per esempio il senso d’inferiorità o il complesso della madre, non era in realtà che la scintilla iniziale che ha innescato l’attività, sia essa un’attività religiosa, artistica, scientifica, politica o di altro genere”.
Ritornando a Storr notiamo che fa una distinzione tra malattia e struttura caratteriale: “Un uomo può avere una psicopatologia maniaco-depressiva senza essere clinicamente malato”. “La psicopatologia maniaco-depressiva, può spronare un uomo a creare: ma la malattia maniaco-depressiva gli impedisce di farlo, e lo stesso è vero per la schizofrenia”. “Ispirazione e follia hanno in comune soltanto il fatto che l’Io è influenzato da qualcosa che emana da una fonte che sta al di là della sua comprensione, e ciò
che gli artisti fanno realmente è molto distante dall’esser folle. In realtà, quando gli artisti diventano pazzi, in genere cessano del tutto di produrre, oppure la qualità delle loro opere peggiora sensibilmente”.
Kris, che ha compiuto uno studio particolareggiato sulle creazioni spontanee degli psicotici, ha notato una differenza tra le espressioni artistiche degli artisti e quelle degli psicotici e cioè, nel caso degli psicotici, anche se vi è un cambiamento di stile, non vi è una vera e propria evoluzione, termine con cui s’intende un mutamento (continuo, graduale) nella realizzazione effettiva, tale da poter essere considerato come una successione significativa di tentativi rivolti alla soluzione di determinati problemi. Io credo che una “evoluzione dello stile” presupponga una integrità delle funzioni dell’Io – o, più precisamente, un certo grado di integrità.
Per quanto riguarda i mutamenti che il processo psicotico (il diventare pazzi) determina negli artisti creatori, Kris indica alcune possibili conseguenze: “Primo: la capacità artistica rimane inalterata e non si riscontrano mutamenti degni di nota; l’attività creativa non fa quindi parte del processo morboso. Secondo: l’attività artistica s’interrompe per riprendere – senza alcuna variazione notevole – dopo il miglioramento del paziente. Negli altri due tipi, l’opera dell’artista va incontro a mutamenti che sono connessi con il processo psicotico; la differenza consiste nella natura di questi mutamenti.” “Se cerchiamo di confrontare le creazioni dell’artista con quelle dello psicotico, troviamo un aiuto in alcune delle preposizioni già enunciate. Nell’opera d’arte, come nel sogno, sono presenti elementi inconsci; anche nell’opera d’arte si rinvengono con facilità i meccanismi del processo primario, ma l’Io mantiene il suo controllo sopra di essi, elaborandone gli schemi secondo il suo diritto, e badando che la distorsione non giunga agli estremi”. Per cui, “L’esperienza clinica dimostra che l’arte come fenomeno estetico – e perciò sociale – è legata alla integrità dell’Io”. Noi sappiamo invece che l’integrità dell’Io è proprio ciò che manca agli schizofrenici. Per il
lavoro creativo, quindi, è essenziale un Io forte e funzionante, capace di giudicare, di inibire l’impulso immediato di resistergli e di controllarlo, cosa non possibile negli stati di malattia mentale. “In altri termini, quantunque la loro (degli artisti) psicopatologia possa sottoporli a tensioni maggiori delle persone medie, essi hanno un superiore apparato di controllo e non sono perciò più portati, sebbene forse non meno, a soffrire di nevrosi o psicosi rispetto a qualsiasi altro”.
Anche Neuman sottolinea l’importanza di un Io forte nell’individuo creativo “In lui sono riscontrabili assai per tempo non solo una speciale reviviscenza dell’inconscio ma un’altrettanto forte accentuazione dell’Io e dello sviluppo dell’Io”.
Conclusioni
In conclusione, abbiamo esaminato le teorie di Freud, di Jung, di Neuman riguardanti l’uomo creativo e le creazioni artistiche. Per quanto concerne Freud possiamo senz’altro concludere che le creazioni artistiche non sono altro che surrogati, sostituti inferiori di ciò che l’autore non è capace di ottenere autonomamente nella realtà. Esse sono appagamenti di desideri insoddisfatti che si raccolgono, necessariamente, in due gruppi principali. Sono o desideri ambiziosi, che servono ad innalzare la personalità del soggetto, oppure desideri erotici.
Stando a quanto afferma Jung, abbiamo visto che per lui la creazione artistica è la manifestazione di immagini primordiali o Archetipi depositati nell’inconscio collettivo, che emergono e si manifestano per mano dell’artista, il quale li elabora e conferisce loro una forma attuale.
Con Neuman abbiamo esaminato le caratteristiche dell’uomo creativo. Abbiamo visto che nella personalità creativa si rendono percettibili tanto i contenuti archetipici dell’inconscio collettivo, quanto i complessi dell’inconscio personale che si trasformano in
una sintesi costruttiva, travalicando gli orizzonti spirituali dell’epoca a cui l’artista appartiene. L’uomo creativo si espone, consapevolmente o meno, ai rischi dell’immersione nei contenuti archetipici per trasformarli e rigenerarli in operazioni psicologiche individuali che implicano il Sé, ovvero il centro della totalità psichica ove si sintetizza la realtà dell’inconscio collettivo e personale. Il plasmare contemporaneamente l’eterno con il contingente, l’infantile con il saggio, offre all’uomo creativo una continua conquista di nuove forme in cui si trasforma egli stesso e il suo tempo.
Per quanto riguarda il primo quesito, e cioè quali siano “le motivazioni dell’artista”, la conclusione cui siamo giunti è che un uomo può essere spinto a produrre una concezione originale dal suo bisogno di difendersi dalla depressione. Può essere costretto dal bisogno di riunire se stesso con il mondo da cui si sente alienato, oppure può essere motivato dal desiderio di compensare nella fantasia ciò che sente deficitario nella realtà.
Per quanto riguarda il secondo quesito “qual è la funzione dell’arte?” possiamo concludere che l’arte ha una funzione di adattamento; serve all’uomo per penetrare meglio la realtà, il mondo circostante.
Per quanto riguarda il terzo quesito “perché interpretare l’opera d’arte?” possiamo concludere che il bisogno dell’interpretazione delle creazioni artistiche nasce dal fatto che esse, come nel sogno, seguono il linguaggio inconscio, che non è immediatamente recepibile dalla coscienza; di qui la necessità d’interpretare.
Per quanto riguarda il rapporto tra “genio e follia nell’artista” possiamo concludere che non è giustificato l’atteggiamento comune di vedere negli artisti delle persone nevrotiche e tantomeno folli. Anche se le persone creative possono essere più divise di molti di noi, dobbiamo ricordare che, a differenza dei nevrotici, esse hanno un Io forte.
Le persone creative e quelle potenzialmente tali, perciò, possono soffrire ed essere infelici a causa della divisione che è dentro di esse, senza per questo cadere necessariamente nella nevrosi o psicosi; cosa che come abbiamo visto impedirebbe la creatività stessa.
Bibliografia
1) Sigmund Freud, “Il poeta e la fantasia” in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, 1969, Vol. 1
2) Cesare L. Musatti, “Commento all’interpretazione di Freud della ‘Gradiva’ di Jensen” in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, 1969, Vol. 2
3) Sigmund Freud, “Introduzione alla psicoanalisi”, Boringhieri, 1969
4) Sigmund Freud, “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci” in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, 1969, Vol. 1
5) Carl G. Jung, “Psicologia analitica e arte poetica” in Psicologia e poesia, Boringhieri, 1979
6) Carl G. Jung, “L’uomo e i suoi simboli”, Longanesi, 1980
7) Erich Neuman, “L’uomo creativo e la trasformazione”, Marsilio, 1975
8) Anthony Storr, “La dinamica della creatività”, Casa Ed. Astrolabio, 1973
9) Arturo Schwarz, “L’uomo dalle braccia alzate” nella Rivista di psicologia analitica “Psicologia e arte”, Einaudi Ed. 1967
10) Ernst Kris, “Accostamento all’arte” in Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi Ed. 1967
11) Herbert Read, “Educare con l’arte”, Edizioni di Comunità, 1954
12) Rudolf Arnheim, “Ordine del giorno per la psicologia dell’arte” in Verso una psicologia dell’arte, Einaudi Ed., 1969
13) Sigmund Freud, “Linguistica, estetica e psicoanalisi” in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, 1969, Vol. 1
14) Rudolf Arnheim, “Quale psicologia?” in Verso una psicologia dell’arte, Einaudi Ed., 1969
15) Aniela Jaffè, “Il simbolismo nelle arti figurative” in L’uomo e i suoi simboli di Carl G. Jung, Longanesi, 1980
16) Leonardo Ancona, “Dinamica dell’apprendimento”, Mondadori, 1975
17) Ernst Kris, “La funzione del disegno e il significato dell’incantesimo della creazione in un artista schizofrenico” in Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi Ed., 1967
18) Ernst Jones, “Vita e opere di Freud”, Il Saggiatore, 1962, Vol. 2
19) Carl G. Jung, “Picasso” in Realtà dell’anima, Boringhieri, 1970
20) Ernst H. Gombrich, “Freud e la psicologia dell’arte”, Einaudi Ed., 1967
21) Carl G. Jung, “Ulisse” in Realtà dell’anima, Boringhieri, 1970
22) Ernst Kris, “Commento alle creazioni artistiche spontanee degli psicotici” in Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi Ed., 1967
23) Ernst Kris, “La funzione del disegno in un artista schizofrenico” in Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi Ed., 1967